Il senso dei luoghi by Vito Teti

Il senso dei luoghi by Vito Teti

autore:Vito Teti [Teti, Vito]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Donzelli Editore
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Le piante, le siepi, le spine costituiscono anche una sorta di tumulo, di sepoltura dei ruderi e dei paesi abbandonati. Camminare tra i ruderi, cercarli, scoprirli significa fare i conti con una vegetazione fitta che li sovrasta, che ne impedisce la vista. Non è facile arrivare alle rovine di Rocca Angitola, di Cerenzia, di Bianco, di Castelmonardo, di Briatico, di Soverato. Bisogna scegliere le ore adatte, la stagione giusta, essere disponibili a lunghe camminate, a qualche caduta, a qualche graffio. Non bisogna, soprattutto, avere fretta. Ci vuole pazienza. Cardi, spine, acacie, lecci, rovi, erbe alte, ortiche danno comunque l’idea di una vittoria della natura e della sepoltura di oggetti e di case.

Oreste Cina era un incantatore, affascinava con i suoi gesti e le sue parole. Sapeva parlare, davvero, di tutto e non riuscivi a capire quando inventava, tanto era credibile, tanto erano affascinanti le cose che diceva. Oreste l’ho incontrato tardi. Io avevo più di trent’anni e lui più di settanta. Viveva a Rimini e avevo sentito parlare molto di lui, come nei paesi succede per personaggi eccezionali che quando se ne vanno vengono mitizzati ma se fossero rimasti sarebbero stati travolti dalle chiacchiere paesane. Di lui avevo sentito parlare anche in famiglia, da mio nonno, di cui era primo cugino, da mio padre, dagli zii. Fu, il nostro, un amore a prima vista. Colmammo il lungo tempo che avevamo sprecato parlando ore e ore, in paese, le poche volte che tornava, a Rimini, quando andavo a trovarlo, per telefono, per lettera.

Una volta lo stavo accompagnando alla stazione di Lamezia Terme, tornava a Rimini dove lo aspettavano la moglie e dove viveva un figlio con la sua famiglia, ma si sarebbe fermato qualche giorno a Roma dall’altra figlia. Scendendo lungo l’Angitola parlava di piante, di tramonti e di stelle, di colori e di luce. Ricordava i nomi di tutte le vie, di tutte le zone, di tutte le curve e di tutti i ponti. Eppure mancava praticamente dal paese dall’inizio degli anni cinquanta e anche prima era stato lontano, a studiare agraria a Portici, poi durante il fascismo in Sardegna, a dirigere una colonia penale dove si facevano esperimenti agricoli, di cui resta memoria negli annali dei ministeri dell’epoca. A un tratto con una vena di tristezza, quasi temesse di non vedermi più, mi disse: «Mi dispiace che adesso ci separiamo». «Anche a me, molto», risposi. E di rimando, senza pensarci, mi disse: «Perché non te ne vieni a Roma con me? Staremo ancora qualche giorno assieme». Non avevo con me nulla, non dovevo partire. Non avevo avvisato i miei nemmeno del fatto che andassi a S. Eufemia Lamezia. «Perché no?», mi dissi e dissi ad alta voce. Lasciammo la macchina al garage della stazione e partimmo come due giovanotti del paese che all’improvviso decidono di andare a prendere un caffè a Salerno o un arancino a Messina. Sul treno parlò sempre Oreste, da Lamezia a Roma. C’era una giovane studentessa, molto carina, che pendeva dalle sue labbra. Era affascinata, incantata, come il pastore del presepe.



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